Aggiunto il 17 nov 2016
Riflessioni sul trittico 'Giacobbe e l'Angelo'
Presentazione inaugurale da Francesca Brandes, poeta e saggista d'arte :
Gli arabi lo chiamano Zarquà, “torrente blu”. Per gli ebrei è lo Jabbok, “fiume che scorre”, si spande per le colline di Giordania, come aroma da un vaso antichissimo e prezioso.
Giacobbe si è svegliato di notte e ha fatto passare i suoi al di là del guado, le due mogli e le due serve, gli undici figli e gli armenti. Sa bene che il fratello Esaù lo minaccia da vicino; gli ha mandato contro quattrocento uomini, e non per portargli pace. Forse vuole ucciderlo, o almeno rubargli il gregge.
È solo, sulla riva del torrente blu, e sta per intraprendere la lotta più difficile della sua vita.
Giacobbe rimase solo – è scritto – e un uomo lottò con lui fino all’apparire dell’alba.
Ish, un uomo quindi, apparentemente nominato nel racconto biblico come “uomo”, e non D-o, e non Signore: Ish, chissà da dove è giunto, dalle sue spalle, dai cespugli neri come pece, o dal cielo colmo di stelle … Davvero ha afferrato Giacobbe in una morsa, o è solo la sua immaginazione? Eppure, quando tutto sembra perduto, l’essere si arrende, o almeno pare: Lasciami andare – gli dice – perché spunta l’alba. Perché mai una simile lotta? Forse perché, dopo quella notte, Giacobbe non sarà più lo stesso. Prima di svanire, l’entità gli ha mutato il nome: Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con D-o e con gli uomini, e hai vinto …
Non un solo uomo, quindi, ma molti. Forse l’essere misterioso è D-o stesso, o un messaggero da D-o inviato.
Questo è un testo scomodo, a suo modo inquietante. Per quale ragione D-o si farebbe avversario, quasi un nemico sbucato dall’oscurità, terribile, implacabile? Come se non bastasse, alla fine l’Onnipotente si rivela debole; persino un pastore come Giacobbe può resistergli, anche se l’essere lascia in lui un segno indelebile, una slogatura dell’anca che lo renderà claudicante per sempre. E poi lo benedice. Anche Giacobbe chiede il nome allo sconosciuto, che risponde alla domanda con un’altra domanda, come sempre avviene nella tradizione ebraica.
Davanti all’enigma dello Jabbok non c’è soluzione, solo stupore. In ogni destino umano si rinnova l’angoscia notturna di Giacobbe; talvolta, di fronte all’acqua blu della solitudine, giunge improvvisa la luce. Pur negli esiti diversissimi, le interpretazioni del passo sono concordi su un punto: il D-o che si manifesta nella lotta non è un principio trascendente e lontano. È prossimo, a portata di mano. È l’immanenza che abita la Storia, che scuote, provoca e ferisce. Inevitabile che un racconto tanto strano abbia colpito l’immaginazione e la sensibilità degli artisti che ad esso si sono ispirati.
La visione di Marie Malherbe, in questa mostra coerente e raffinata, privilegia alcuni elementi introspettivi, secondo lo spessore intellettuale che le è proprio, coniugandoli con un colore cristallino che possiede la luminosità del diamante. Di tutte le mostre di Marie che ho avuto il piacere e l’onore di vedere, questa si precisa per una maturità di tratto e una chiarezza progettuale incredibili: non è lotta, ma danza, quella tra Giacobbe e ciò che Marie sceglie di chiamare “angelo”, danza di resistenza, di equilibrio, ma soprattutto danza di riconoscimento. L’attribuzione dell’identità, oltre, al di là dell’eroe, addirittura al di là dell’Onnipotente, passa appunto per il riconoscimento del limite, della nostra debolezza. Passa per quella ferita. Come se – sembra suggerire l’artista – fosse a partire da lì che si può costruire la propria specificità, la propria affermazione.
Parafrasando una citazione cara alla mistica cristiana del monte Athos, per quest’artista si potrebbe sostenere che lo scopo del fare arte, del disegnare, del dipingere è quello di mantenere imperturbata l’unione dell’essere umano con il divino amore e la pace. Marie Malherbe è sempre centrata sulla verticale psichica che regge tutta la sua esile, angelica figura, eretta ed assieme abbandonata al gesto che crea, perfettamente in sé. È in lei quella terza dimensione di cui parla il filosofo del monoteismo Heschel: Noi non viviamo soltanto nel tempo e nello spazio, ma anche nella consapevolezza del divino.
È lo stile dei contemplativi, che solleva all’orizzonte della visione ogni esperienza. All’artista è dato di danzare, come Giacobbe con il proprio angelo, come ciascuno con il proprio angelo. La musica, quella, è indicibile. Risuona nell’Aperto, come in Sofferte onde serene di Luigi Nono, una risonanza senza tempo. È come ascoltare il vento – diceva Nono – ascolti qualcosa che passa, ma non senti l’inizio, non senti la fine, e percepisci una continuità di lontananze, di presenze indefinibili. Quasi, potremmo aggiungere, il battito d’ali degli angeli.
Francesca Brandes, Venezia, 28 ottobre 2016